Io ho capito una serie di cose negli ultimi tre anni, ma non ve le posso raccontare tutte, ovviamente, anche se si tratterebbe di storie veramente, ma veramente selvatiche e qui ci starebbero bene. Ne ho scelta una, stasera; spero vi piaccia.

Quando tanto tempo fa io mi sono trovata in un bosco nuovo, in una Valle nuova, dove avevo cominciato un nuovo lavoro, mi son sentita particolarmente felice. Vivevo in una casetta che un tempo le donne che andavano a piantare gli alberi e che in dialetto si chiamavano “Peciolere”, usavano come me come rifugio estivo. Mi avevano assegnato la casetta perché era pieno agosto e perché il mio alloggio definitivo non era ancora stato liberato dalla collega che lo aveva occupato in precedenza; o almeno, così mi avevano raccontato. Sono rimasta lì fino a novembre inoltrato, con meno sei gradi nella stanza dove dormivo.

IN estate quel posto era magnifico. In mezzo a un parco naturale, con i cervi che pascolavano a pochi metri e un paesaggio mozzafiato! Subivo sì un po’ di mobbing sul lavoro, di quello duro, ma io ero felice lo stesso, perché mi ero appena liberata dagli uffici dove mi avevano provato a rinchiudere per un bel po’ di anni, e in confronto per me quelle erano scaramucce; quelli che mi vessavano, non lo sapevano da dove arrivavo, non lo avevano visto l’inferno centrale com’era, e cosa avevo imparato a sopportare. Fra me e me io sorridevo sempre, ma fuori portavo una bella maschera di indifferenza, come avevo imparato a fare. Mai dare soddisfazione ai vigliacchi! Mai!

E insomma ero felice, perché ero in mezzo ai boschi. Mi ero portata i miei cd, mentre tutto il resto della mia roba era rimasta stipata in un garage di Trento per più di 6 mesi, ma non mi importava! Io ero felice, perché ero fuori dagli uffici centrali e alla sera mi ascoltavo Beethoven, quando rientravo dal lavoro, mi leggevo Steiner e disegnavo boschi con la china mentre guardavo il sole che tramontava dietro alle montagne più belle del mondo; era il periodo della china, quello. E mentre sentivo i cervi che strappavano l’erba davanti all’uscio, infilata nel mio sacco a pelo prima di dormire, pregavo che non fosse solo un sogno.

Vedete, in questi tre anni pandemonici appena passati, ho pensato spesso a quel periodo e ad altri periodi della mia vita, e mi sono detta che se avevo superato lutti, malattie, tradimenti, situazioni lavorative che avrebbero piegato anche un marines, inverni a meno 15 con una sola stufetta a legna perennemente accesa, tranne quando mi addormentavo e allora si spegneva e io mi svegliavo per il freddo… ecco, se avevo superato sempre tutto relativamente bene, perché mai avrei dovuto cambiare registro proprio adesso, che tutto il mondo sembrava cominciare a dover fare percorsi che io avevo già fatto?! In fin dei conti, invece, io in questi tre anni, mi sono sentita fortunata, perché ero già ben temprata.

Insomma, se avevo superato le esplorazioni in solitaria di zone impervie e isolate che duravano giorni, perdendomi felicemente da sola nei boschi e sulle rocce per ore e ore, con la costante sensazione che avrei potuto morire da un momento all’altro e con l’adrenalina che mi scorreva in proporzione 1:1 col sangue che avevo in corpo (e adesso forse a qualcuno si spiega perché io non ho mai, mai avuto necessità di sballarmi con niente, che già la mia vita mi ha sballato abbastanza), insomma se tutto questo, ora che mi guardo indietro mi sembra il meglio che la Vita mi aveva donato, cosa volete che me ne fregasse a me di correre il rischio di morire per un influenza, o di uscir di casa quando si doveva star rinchiusi per mesi? Io in quei mesi ho vissuto esattamente nello stesso identico modo in cui ho sempre vissuto; solo annoiandomi un po’, ma neanche tanto.

Io la prigionia l’avevo già vissuta, quando mi avevano mandata in ufficio, per ben due volte e lì sì, ho visto la vera Morte, dentro. MI ricordo che continuavo a perdere i sensi, come se volessi spegnermi, per non vedere. Sindrome di sincope da stress, la chiamano. O una roba del genere. MI ritrovavo a svegliarmi dopo non so quanto, con un bernoccolo in testa spesso e lunga e distesa su qualche pavimento degli uffici, o dei bagni. Mi è bastato andarmene e non mi è più successo. A confronto la pandemonia è stato un giretto in giostra, per me.

Io, in mezzo a quelle che la gente chiama “difficoltà”, me la sono sempre cavata egregiamente da sola; davvero. Ma non lo dico per vantarmi, o per farmi fare complimenti non richiesti, vi giuro, ma perché col senno di poi, mi rendo conto che se sei dentro ai casini fino al collo, l’unico modo per uscirne è non fermarsi mai a piangersi addosso o a rompere le palle a qualcuno piangendo per un problema che puoi risolvere solo tu!

E non mi si venga a dire che occorre condividere e fidarsi, perché l’amara verità, gente, è che delle tue paturnie frega poco o niente quasi a nessuno, quindi perché mettersi ad annoiare la gente invece di darsi da fare e risolvere, mi chiedo!? Quattro chiacchiere ci possono stare, ma poi bisogna pur darci un taglio ed agire. Qualunque cosa succeda. E io questo l’ho imparato dai boschi e in particolare da certe bestie selvatiche che sono maestre nel trovare sempre una soluzione! La mia vita nei boschi è stato il mio magnifico viaggio in solitaria!

Nei boschi, sulle montagne ho provato la vera paura della morte, quella che tutti rifuggivano in questi 3 anni; perché vedete, io ho capito che in questi tre anni, la gente non ha avuto paura di morire. La gente ha avuto paura di provare la paura della morte! E’ diverso e forse peggiore. Hanno voluto prevenire la paura.
Ma io, il terrore l’ho provato quando ero sola in un pomeriggio di luglio, sospesa su un precipizio, aggrappata a un tronco mezzo marcio e senza appoggio per un piede, dove sapevo che se fossi caduta nessuno mi avrebbe mai potuto trovare; son rimasta lì mezz’ora, finché non ce l’ho fatta più… ma come vedete sono qui, (purtroppo, dirà qualcuno 😀 😀 ) la posso raccontare (ed è la prima volta che ne parlo e ce ne sarebbero altre da raccontare),forse perché è giusto condividere una mia certezza, ovvero che nella vita ogni tanto, se non hai più forza, se ti vedi sconfitta, veramente sconfitta, ti viene a salvare qualche cosa dentro di te che nemmeno sapevi di avere; si chiama forza data dalla disperazione.

Quando non hai più forze, si innesca quella cosa che senza che te ne rendi conto ti porta fuori da tutta la merda, anche la più alta. Voi direte, ma e chi te lo fa fare, scusa!? Eh, bella domanda. Non lo so, forse la voglia di non lasciarmi morire di inedia su un divano? O di autocommiserarmi giorno dopo giorno perché non sono riuscita a fare tutto quello che avrei voluto fare e anziché mettermi a fare, muoio ogni giorno un po’ di più nella lamentela? La lamentela, gente… che noia!!!

Quindi, perché avere paura della disperazione, della paura di morire, mi sono chiesta in questi tre anni? Non ha senso. E poi la solitudine… la solitudine gente è la salvezza, il nostro punto di ancoraggio, il moschettone che non tradisce mai! Nella solitudine puoi riprenderti quello che non hai mai nemmeno potuto osservare di te stessa e che magari scopri che può essere davvero brutto, è vero, ma a volte anche bello e profondo e addirittura meraviglioso! E allora, perché avere paura della solitudine, mi chiedo? E quanta gente ha avuto invece il terrore di rimanere chiusa in casa da sola, o peggio, con qualcuno… (questi ultimi li capisco meglio) in questi anni? Quanti ti raccontano questa cosa!? Che si sono aggrappati ai social, per farsi fare ogni giorno la dose di terrore, pur di non rimanere soli con se stessi.

Nei boschi in solitaria io ho trovato sempre un conforto senza riserve, ho trovato sempre la commozione sincera per la Bellezza che mi circonda e lo smarrimento per tutte le volte che mi sono dovuta stupire, che ne so… di una piuma, di un giro di vento, di una foglia pazzesca! E poi la gioia, incontenibile, quella che ti fa piangere.
Per la maggior parte del tempo, io mi rendo conto che proprio i momenti in cui io ero sola nei boschi e sulle montagne, ad affrontare grandinate, piogge che duravano giorni, vento forte e schianti improvvisi… per tutto quel tempo durante il quale io pensavo che tutto poteva finire da un momento all’altro, io sono stata veramente e profondamente felice. Perché l’essere umano non è fatto per rimanere spento e immobile davanti a un video; l’essere umano è fatto per emozionarsi in un modo potente, e per perdersi nelle emozioni!!Anche le più spaventose, piuttosto che la morte del nulla!

Sono tutt’ora i momenti migliori, quelli. Ne sento il profumo, anche, perché quei momenti hanno un odore particolare che mi gira nel cervello. Anche i momenti di quelle volte che ho provato la vera paura. Io sono grata di tutto, sinceramente. Se la mia vita dovesse finire adesso, questo sarebbe il mio testamento. Sono stata felice sempre, a prescindere dalle balle che mi raccontavano dal mondo.
Il peggio io l’ho sfiorato solo, sempre e soprattutto quando mio malgrado sono dovuta uscire dai boschi, lasciando le bestie selvatiche per incontrarmi con le bestie umane; ma se è vero che tutti noi siamo la causa di ciò che la vita ci prepara sul piatto ogni giorno, mi prendo la responsabilità di tutto ciò che ho vissuto e dovuto ingoiare al desco delle umane pochezze e viltà.

Si vede che sono stati quello che mi serviva per capire che non facevano e non fanno per me e per amare la mia vera vocazione senza alcuna riserva. 😉 Salvo rare, immense e, per me, meritevoli eccezioni, i ricordi migliori non hanno occhi umani, mi spiace. Ma quelle eccezioni io le porto nel cuore e nei miei boschi, sempre, anche se qualcuno sta camminando su altri sentieri, in altre dimensioni, non importa; fanno parte di me. Mai come in questi tre anni, mi sono potuta rendere conto di questa storia selvatica vera che vi ho raccontato. A me, le farse pandemoniche sono servite anche a capire tutto questo e sono grata. Non so a voi a cosa son servite; ditemi, che vi ascolto. 🙂
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