Riprendo la tematica della fiaba e ripropongo qui un lavoro che ho pubblicato sul blog “Il mio tributo alla bellezza” il 07 marzo 2015. Forse oggi affronterei in modo diverso questa fiaba, perché la vita ci cambia e cambiando, abbiamo visioni diverse delle cose del mondo. Questo è un bene, perché significa che non siamo fermi; chi è fermo, il più delle volte è morto, o quasi.
Mi preme però recuperare il lavoro già fatto e riproporlo con eventuali aggiunte e modifiche aggiornate al testo di analisi. Se poi qualcuno arriverà fino alla fine (c’è una bella canzoncina all’inizio e in fondo al testo, ve lo dico), potrà dirmi se ritiene la mia lettura verosimile o meno e se ne ha voglia, potrebbe aggiungere una sua visione della questione. 😀

LA FIABA
Da: Fiabe italiane di Italo Calvino – L’uomo verde d’alghe
Un Re fece fare le grida nelle piazze
che a chi avesse riportato la sua figlia sparita
gli avrebbe dato una fortuna.
Ma la grida non aveva effetto perché nessuno sapeva dove poteva esser andata a finire questa ragazza: l’avevano rapita una notte e non c’era posto sulla terra che non avessero frugato per cercarla.
A un capitano di lungo corso venne l’idea che se non si trovava in terra si poteva trovare in mare, e armò una nave apposta per partire alla ricerca. Ma quando volle ingaggiare l’equipaggio, non trovava marinai: perché nessuno aveva voglia di partire per un viaggio pericoloso, che non si sapeva quando sarebbe finito.
Il capitano era sul molo e aspettava, e nessuno s’avvicinava alla sua nave, nessuno osava salire per il primo. Sul molo c’era anche Baciccin Tribordo che era conosciuto come un vagabondo e un uomo da bicchieri, e nessuno lo prendeva sulle navi. – Dì, ci vuoi venire tu, sulla mia nave? – gli fece il capitano.
– Io sì che voglio.
– Allora sali! – e Baciccin Tribordo salì per primo.
Così anche gli altri si fecero coraggio e salirono a bordo.
Sulla nave Baciccin Tribordo se ne stava sempre con le mani in tasca a rimpiangere le osterie, e tutti brontolavano contro di lui perché il viaggio non si sapeva quando sarebbe finito, i viveri erano scarsi e dovevano tenere a bordo un fa-niente come lui. Il capitano decise di sbarazzarsene. – Vedi quell’isolotto? – gli disse, indicandogli uno scoglio isolato in mezzo al mare.
– Scendi nella scialuppa e va’ a esplorarlo. Noi incrociamo qui intorno.
Baciccin Tribordo scese nella scialuppa e la nave andò via a tutte vele e lo lasciò solo in mezzo al mare. Baccicin si avvicinò allo scoglio. Nello scoglio c’era una caverna e lui entrò. In fondo alla caverna c’era legata una bellissima ragazza, ed era la figlia del Re. – Come avete fatto a trovarmi? – disse a Baciccin Tribordo.
– Andavo a pesca di polpi, – disse Baciccin.
– E’ un polpo enorme che m’ha rapita e mi tiene prigioniera, – disse la figlia del Re. – Fuggite, prima che arrivi! Ma dovete sapere, che questo polpo per tre ore al giorno si trasforma in triglia, allora è facile pescarla, ma bisogna ammazzarla subito perché altrimenti si trasforma in gabbiano e vola via.
Baciccin Tribordo si nascose sullo scoglio, lui e la barca. Dal mare uscì il polpo, ed era enorme e con ogni branca poteva fare il giro dell’isola, e s’agitava con tutte le sue ventose perché aveva sentito che c’era un uomo sullo scoglio. Ma venne l’ora in cui doveva trasformarsi in pesce e tutt’ad un tratto diventò triglia e sparì in mare. Allora Baciccin Tribordo gettò le reti e ogni volta che le tirava c’eran dentro muggini, storioni, dentici e alla fine apparve, tutta sussultante, anche la triglia.
Baciccin levò subito un remo per darle un colpo da ammazzarla, ma invece della triglia colpì il gabbiano che si era levato a volo dalla rete, e la triglia non c’era più. Il gabbiano non poteva volare perché il remo gli aveva rotto un’ala, allora si ritrasformò in polpo, ma aveva le branche tutte piene di ferite e buttava fuori un sangue nero. Baciccin gli fu sopra e lo finì a colpi di remo. La figlia del Re gli diede un anello con diamante in segno di perpetua gratitudine.
– Vieni, che ti porto da tuo padre, – disse lui, e la fece salire nella barca. Ma la barca era piccola ed erano in mezzo al mare. Remarono, remarono, e videro lontano un bastimento. Baccicin alzò in cima a un remo la veste della figlia del Re. Dalla nave li videro e li presero a bordo. Era la stessa nave da cui Baciccin era stato abbandonato.
A vederlo tornare con la figlia del Re il capitano cominciò a dire: – O povero Baciccin Tribordo! E noi che ti credevamo perduto, t’abbiamo tanto cercato! E tu hai trovato la figlia del Re! Beviamo, festeggiamo la tua vittoria! – A Baciccin Tribordo non sembrava vero, tanto tempo era rimasto senza assaggiare un goccio di vino.
Erano già quasi in vista del porto da cui erano partiti. Il capitano fece bere Baciccin, e lui bevve, bevve fino a che non cascò giù ubriaco morto. Allora il capitano disse alla figlia del Re: – Non direte mica a vostro padre che chi v’ha liberato è quell’ubriacone! Dovete dirgli che vi ho liberato io, perché io sono il capitano della nave, e quello là è un mio uomo che ho comandato io di fare quel che ha fatto.
La figlia del Re non disse né sì né no. – So io quel che dirò, – rispondeva. E il capitano allora pensò di farla finita una volta per tutte con Baciccin Tribordo. Quella stessa notte lo presero, ubriaco com’era e lo buttarono in mare. All’alba il bastimento arrivò in vista del porto; fecero segnali con le bandiere che portavano la figlia de Re sana e salva, e sul molo c’era la banda che suonava e il Re con tutta la Corte.
Furono fissate le nozze della figlia del Re col capitano. Il giorno delle nozze nel porto i marinai vedono uscire dall’acqua un uomo coperto d’alghe verdi dalla testa ai piedi, con pesci e granchiolini che gli uscivano dalle tasche e dagli strappi del vestito. Era Baciccin Tribordo. Sale a riva, e tutto parato d’alghe che gli coprono la testa e il corpo e strascicano per terra, cammina per la città. Proprio in quel momento avanza il corteo nuziale, e si trova davanti l’uomo verde d’alghe. Il corteo si ferma. – Chi è costui? – Chiede il Re. – Arrestatelo! – S’avanzano le guardie, ma Baciccin Tribordo alzò una mano e il diamante dell’anello scintillò al sole.
– L’anello di mia figlia! – disse il Re.
– Sì, e questo è il mio salvatore, – disse la figlia, – è questo il mio sposo.
Baciccin Tribordo raccontò la sua storia; il capitano fu arrestato. Verde d’alghe com’era si mise vicino alla sposa vestita di bianco e fu unito a lei in matrimonio.
(Provenienza: Riviera ligure di ponente)
Provo qui ad analizzare il senso di questa fiaba, senza pretendere di arrivare a sviscerarne tutti gli aspetti o di cogliere appieno il senso, ma affrontando quelli che per me sono gli elementi principali in termini di significato. Ci sarebbe da dire molto anche sulla simbologia dei colori, ma diventerebbe fin troppo lunga la faccenda. 😀
Questa è una delle fiabe raccolte da Calvino che più mi ha affascinato, perché mi ha fatto ricordare un poema che ho letto qualche tempo fa: “La saga di Gilgamesh”.
Forse le connessioni che mentalmente ho fatto io in merito, possono risultare un po’ fuori luogo a qualcuno, ma la mia è stata una reazione istintiva e mi permetto di proporla qui, anche se probabilmente è criticabile da chi ne sa più di me. Tendo sempre a leggere fra le righe delle fiabe e qui ho avvertito un “sapore” conosciuto, un fascino analogo a quello che ho vissuto leggendo l’epopea di Gilgamesh.
Ma tutte le fiabe ed i miti hanno degli elementi che inevitabilmente li accomunano, anche se spesso non ci sappiamo spiegare razionalmente il motivo; spesso poi queste reazioni sono soggettive e si rifanno al vissuto dei singoli.
Mi diverto a seguire dei nessi che nascono spontanei fra una fiaba e l’altra o fra un’opera letteraria e l’altra. Sono un’appassionata di assonanze e sincronicità, che ci vogliamo fare?!
Forse lo faccio perché è un modo come un altro per andare oltre al testo. Certo in apparenza non c’è nulla di più dissimile del protagonista della fiaba riportata da Calvino ed il protagonista dell’ Epopea di Gilgamesh; il primo è un uomo che vive ai margini della società, in apparenza un derelitto che si attacca alla bottiglia ad ogni occasione, mentre il secondo è niente meno che un re, un essere in parte divino. Eppure nel suo essere “fuori dagli schemi”, anche Baciccin Tribordo è un po’ dionisiaco e un po’ Bacco, no? Soprattutto è una persona che non si fa problemi ad esplorare l’ignoto, a mettersi in gioco e a rischiare in prima persona e un po’ mi ricorda qualcuno.

Se Baccicin Tribordo non fosse un po’ ubriacone, un po’ al di sopra delle righe e al di fuori degli schemi, che protagonista sarebbe? Non ci sarebbe movimento, non ci sarebbe ignoto da scoprire e non ci sarebbe avventura; lui è l’archetipo per eccellenza del marinaio avventuriero (del pirata buono) e in tal senso, Hollywood non si è inventata niente.
Baciccin Tribordo è in cerca di un’opportunità che possa cambiargli l’esistenza; aspetta di potersi imbarcare su una nave, prendere il largo e avventurarsi in mare aperto. È pronto a cogliere l’attimo, ad aggredire l’ignoto, come un vero eroe, un vero avventuriero.
Ma proprio il suo vivere ai margini è l’elemento che non gli permette di realizzare quest’aspirazione, finché un giorno la situazione si capovolge e proprio questa sua condizione di “marinaio scapestrato, ma sempre in attesa del viaggio” gli offre l’occasione che cerca; è lui il primo ad imbarcarsi per l’impresa impossibile propostagli dal capitano ed è lui a dare l’esempio agli altri marinai che trovano il coraggio di seguire l’esempio e imbarcarsi a loro volta.
Baciccin dà l’esempio agli altri; ha il coraggio di affrontare i pericoli di un viaggio che non si saprà come e quando finirà ed è l’unico che lo fa con lo spirito dell’avventuriero che non si muove per qualche interesse particolare, ma solo perché ha la voglia di conoscere che cosa accadrà nel corso del viaggio. Lo spirito che lo muove è quello di chi sa di essere vivo per vivere la vita e per nient’altro; non importa quale sarà il prezzo da pagare!
Ora, a me pare che quello di Baciccin Tribordo è un po’ lo spirito che spinge tutti gli eroi dei poemi epici a muoversi, Ulisse compreso. E’ visto come una persona strana e al di fuori degli schemi convenzionali, ma è proprio questa sia caratteristica che gli consente di fare cose che altri non farebbero mai e alla fine, di coglierne i frutti.
Il viaggio in mare di Baciccin Tribordo ha un sapore forte di iniziazione, di prova di coraggio. Lui per tutti continua ad essere l’ubriacone di bordo, ma una volta lasciato solo sullo scoglio, dimostra di saper affrontare la situazione, di saper far fronte ai pericoli che gli si presentano con la giusta determinazione. Lasciato solo, Baciccin si rivela per quello che realmente è, e dimostra di sapersela cavare benissimo. Esplora la caverna con coraggio e questo coraggio viene premiato, facendogli trovare la figlia del re. Quando si dice che la fortuna aiuta gli audaci, penso sia questo che s’intende.
Non viene abbandonato su un’isola, ma su uno scoglio; gli scogli nei racconti di navigazione, come ad esempio l’Odissea, rappresentano una vera e propria ossessione. Sono causa di timore e vengono spesso paragonati a mostri marini. Sono i nemici implacabili sulla via di ogni destino e psicologicamente possono rappresentare la chiusura della coscienza in un atteggiamento di ostilità, la stagnazione nella via del progresso spirituale; è una sorta di simbolo della “pietrificazione” dell’anima, del mito della regressione.
Baciccin si avvicina allo scoglio e lo affronta con coraggio e “superato lo scoglio” trova la caverna. La caverna è anche il luogo di accoglienza di forme simbolico-rituali, quali l’iniziazione e la rinascita a un livello superiore di esistenza; è l’archetipo dell’utero femminile, ma anche l’antro dal quale emergono i mostri e molto dipende da come viene affrontata e vissuta.
Anche Gilgamesh durante il suo viaggio alla ricerca dell’immortalità giunge al monte Masu; dopo che i due esseri metà scorpioni, e metà umani lo fecero passare, in virtù della sua natura in parte umana e in parte divina; anche lui attraversò le tenebre della montagna. Baciccin in fondo alla caverna trova la figlia del Re, mentre Gilgamesh trova il giardino degli dei ed in seguito Siduri, la donna della vigna. Entrambi incontrano il femminile attraversando il profondo della Terra, simbolo di maternità e fertilità per eccellenza.

Arte sumera- statue votive oranti
Siduri indicherà a Gilgamesh la via da seguire per arrivare all’isola felice di Dilmun, rendendogli noti i pericoli che dovrà affrontare, ma anche la figlia del Re redarguisce Baciccin sui pericoli ai quali andrà incontro, dovendo affrontare il grande polipo che l’ha rapita.
Quando Baciccin pesca la triglia si trova a dover fronteggiare il mostro, mentre quest’ultimo assume diverse sembianze, (e anche qui le metamorfosi da essere dell’acqua, la triglia, ad essere dell’aria, il gabbiano) e alla fine riesce a sconfiggerlo. La figlia del Re dona a Baciccin un anello, simbolo di un’unione libera ormai già avvenuta, ma anche, come avvenne per il Re Salomone, il simbolo della saggezza e del potere sugli altri esseri. Nel caso di Baciccin, il dominio avviene sul mostro che ha saputo sconfiggere che simbolicamente rappresenta le sue paure ed i suoi limiti.
Ma le prove per Baciccin non sono ancora finite: una volta risalito sulla nave riprende a bere e nuovamente viene gettato in mare su ordine del capitano. Ma proprio quando la fiaba pare volgere al fine con il solito matrimonio e la frase di rito “e vissero felici e contenti”, Baciccin riappare emergendo dal mare, coperto d’alghe e in possesso dell’anello che lo avrebbe fatto riconoscere come vero salvatore della figlia del Re. Sembra quasi una scena di rinascita, o di resurrezione a seguito di un battesimo simbolico.
E anche in questo caso ho ripensato a Gilgamesh che si immerge sul fondo del mare per prendere la pianta dell’Irrequietezza, la quale gli avrebbe permesso di riavere la gioventù perduta. La pianta raccolta con tanta fatica gli verrà poi rubata da un serpente (simbolo di saggezza e conoscenza) e Gilgamesh dovrà rassegnarsi alla consapevolezza di dover un giorno morire.
Entrambi i protagonisti riemergono dall’acqua portando con sé, l’uno le alghe che gli ricoprono il corpo, e l’altro la pianta cercata; entrambi questi elementi sono i simboli di una conoscenza ormai acquisita dopo l’immersione nell’ignoto, rappresentato dall’Oceano.

In entrambi i casi le esperienze fatte hanno portato alla maturazione e alla consapevolezza; due doti tali da renderli entrambi pronti a vivere nel migliore dei modi, liberi dai propri vizi e forti del fatto che hanno saputo affrontare i propri limiti e di conseguenza anche a morire con altrettanta serenità, perché chi sa vivere con saggezza, sa morire con dignità.
E per alleggerire un po’, adesso mi ascolto questa! 😀 😀
Rispondi