Ogni tanto si legge e si sente di una Natura che si ribella, o che fa semplicemente quello che deve fare. Questo post lo pubblicai otto anni fa, su uno dei miei blog.
Oggi lo ripropongo rivisto e corretto, perché le piogge di questi giorni mi hanno fatto ripensare a quel periodo; sapete no, come accade? Una va a fare un’escursione in certi luoghi che non vede da tanto tempo e si ritrova a ricordare, a provare le stesse sensazioni già provate anni prima e i ragionamenti riaffiorano. Ecco, mi è successo questo, in questi giorni, e mi sono ricordata di averci scritto qualcosa.
Erano i giorni delle piene, delle colate di fango e delle piogge incessanti, ricordo. A quel tempo monitoravo i torrenti. Ho fatto questo lavoro a contatto con i corsi d’acqua per quattro anni e ho imparato quanto può essere pericolosa l’acqua, quando i torrenti si arrabbiano. Ho recuperato questo post e per chi volesse leggere la me stessa di otto anni fa (mi rendo conto che per gli altri forse è poco interessante, mentre per me rileggermi a distanza di tempo mi apre sempre qualche porta che non conoscevo ancora), lo posto qui.
Storie selvatiche di chi è abituato a resistere
L’enorme ballerino dalle membra liquide procede a scrosci e balzi immondi, maldestro, privo del senso del ritmo, spinto da sé medesimo, ingordo, famelico d’aria e spazio.
Avanza e ingoia la materia che gli si offre al passaggio; la lambisce con lingue lanciate a frusta e spacca, spezza, ruba e trascina fra salti e passi di lunghezza inarrivabile, strascicati lungo un letto di steccati divelti, massi, sassi, fossi melma, fango e flutti urlanti.
Si fa grosso man mano che avanza, lento e inesorabile come un dragone ferito.

Foto dalla rete
Soffoca con i suoi muggiti le urla delle fibre di cellulosa strappate a se stesse.
Ha le movenze sconnesse di un grosso, enorme danzatore dalla pelle annerita e sporca, la carne metamorfica, la foga irrefrenabile, il movimento disperato e sconnesso, indifferente, potente.
Salta in avanti con un moto perpetuo che sembra crescere di balzo in balzo, attingendo potenza forse dalle radici dell’inferno.
Avanza e cerca respiro, scalciando frenetico come un impiccato.
Appare alla luce dei lampi l’uomo con la faccia scarna e gli occhi infossati; ha mani nodose e secche.
Gli occhi di quest’uomo fissano di sbieco e con timore il danzatore impazzito e in quegli occhi c’è la paura, la disperazione, ma anche la determinazione.
Le dita ingiallite dal tabacco e dalle nocche sporgenti e fredde, afferrano e stringono con forza un manico di legno umido e le braccia con i polsi nodosi fanno da perni per il lavoro di leva, come a voler spingere da sole un’enorme locomotiva spenta.
Il fiato esce a nuvole di gocce sottili dal fondo della gola, filtrato dai denti serrati, tinti di scuro dai sorsi brevi di caffè tostato sulle piastre delle stufe, dal vino denso lasciato uscire con parsimonia dall’unica, enorme botte conservata in cantina, dal tabacco acre e pungente che s’aggrappa come colla alle fessure fra dente e dente e fa nido fra i peli spettinati di una lunga barba.
L’uomo con la faccia scarna lavora con la pelle che gronda pioggia e sale, i pori che buttano rivoli che sembrano nascere direttamente dal centro dello sterno ossuto, dalle pulsazioni frenetiche che gli arrivano alle tempie, dal fango e dal pulviscolo di acqua e terra che il danzatore dannato gli fa piovere addosso e dentro agli occhi, facendoli piangere, senza requie.
L’uomo che non si ferma mai ha memoria limpida delle regole per costruire case solide di sassi scolpiti e per erigerle ha usato quello stesso fango; regole tramandate per secoli e usate per disporre massi su massi.

Colata di fango in Val di Fassa 5 agosto 2022 – foto da drone.
Ricorda quella regola antica e immortale, fatta di esperienza tramandata, di dettami indiscutibili; è una regola dura, forte e tenace come le mani e la volontà di chi lo ha preceduto.
E dal centro del suo petto si dipartono le radici; l’uomo dalla faccia scarna le sente muoversi e le lascia fare.
E sono quelle che lo saldano a quel pezzo di terra ripida e ostile che da sempre sembra voler scalzare ogni presenza vivente per farla rotolare oltre i canaloni, le cenge, le valli infossate nel nulla del buio profondo, scavato nei secoli dai danzatori folli che hanno preceduto questo.
Sono quelle le fibre che lo trattengono saldo e che nel corso degli anni della sua testarda esistenza, hanno saputo farlo resistere e hanno saputo crescere con il necessario amore, con la necessaria passione e la necessaria disperazione per resistere lassù sui pendii scoscesi.
Il suolo che gli si presenta ogni giorno faccia a faccia, senza che egli debba abbassare troppo lo sguardo per vederlo, lo accoglie passo dopo passo anche adesso, mentre il cielo sembra voler piangere tutta l’acqua degli universi; quello stesso suolo sembra ora chiedergli di lasciare che le zolle pesanti gli si aggrappino alle caviglie, per non venir spazzate via, franando laggiù in basso, oltre le rocce nude, oltre i dirupi, le forre, nel buio degli antri sotterranei, per disperdersi poi lontane, troppo lontane da dove sono nate.
L’uomo dalla faccia scarna affonda i piedi nel fango e lascia che le zolle disperate si aggrappino alla sua disperazione e intanto continua a lavorare, continua a scavare, continua ad affondare la zappa per incanalare le fruste del danzatore feroce, continua a cercare di dar loro la direzione necessaria perché si allontanino dalle sue mura, dal suo tetto, dai suoi animali, dalla sua gente.
Le braccia sollevano massi e sacchi e tronchi, le mani cercano di rafforzare, di inchiodare, di trattenere e tutto il corpo si fa puntello per non cedere, per non sparire, travolto dalla danza frenetica del danzatore, che oramai continua da troppi giorni e che sembra divenuta perpetua.
L’uomo dalla faccia scarna ha smesso di pensare e da molti giorni ha smesso di sperare; ha abbandonato gli attrezzi e guardando dai vetri della finestra, ha capito che non aveva scelta, perché non ci sono braccia abbastanza forti per fermare le ire della Natura e pensa che questa volta, no potrà salvare ciò che i suoi padri gli hanno lasciato dopo aver resistito a loro volta. Ma poi, di colpo, la pioggia cessa, si aprono le nubi e i suoi occhi grigi, riflettono l’azzurro.
http://dadoveprendoilvolo.wordpress.com/2014/11/18/perche-la-terra-si-ostina-a-franare/
Rispondi