Una volta, un vecchio pastore delle mie parti mi ha detto questa frase: “La solitudine è come la grappa; se hai freddo dentro, puoi berne a litri e ti intontisce, ma non ti riscalda mai abbastanza, ma se già dentro hai il cuore che ti sorride e sei innamorata, allora una sola goccia ti fa fare la balla contenta!”
E bevemmo; io un bicchierino, lui direttamente dalla bottiglia, e mentre io annuivo sorridendo, lui raccontava, ma non sorrideva mai. Si limitava a guardare le pecore e i cani, con gli occhi rossi e lucidi e la pelle bruciata che gli cadeva dalla faccia.
Ed è così come disse quel pastore: non esistono rimedi facili se hai il cuore triste, ed ogni rimedio, compresa la solitudine, esattamente come la grappa, o qualsiasi altra pasticca magica, non fanno altro che amplificare la tristezza. Quindi, se a qualcuno venisse in mente di fare l’eremita mentre ha il cuore triste, o poco innamorato, io glielo sconsiglio. Così come sconsiglio a chiunque di andar per boschi se non li conosce bene e se non sa ritrovare la strada di casa; che poi le persone che hanno il cuore triste, spesso sono anche quelle che non sanno ritrovare la strada di casa, perché hanno perso ogni riferimento fisico di dove sta l’affetto, la fonte dell’amore vero, perché il cuore non lo sentono più.
Eppure c’è un modo per imparare a curarsi il cuore triste e lo si può fare proprio rimanendo nella solitudine, ma ci vuole una grande capacità di concentrazione, di attenzione alle piccole cose. Ci vuole una vocazione per una dote che hanno tutti, ma proprio tutti, ma che alla maggior parte della gente, potrebbe sembrare una cosa inutile e superflua. E invece, proprio nell’attenzione alle piccole cose è nascosta l’immensità e la salvezza da tutte le brutture, da tutte le tristezze e basterebbe accorgersene. Ma oggi, diciamocelo chiaramente, in quanti sono disposti a prendersi il tempo per dedicarsi all’osservazione attenta e prolungata, alla contemplazione delle piccole cose?! Io ne conosco pochi, pochissimi!
E tutti gli altri? Beh… tutti gli altri si limitano a far scorrere le dita su uno schermo e a lamentarsi di quello che ci trovano su quello schermo, a lamentarsi del loro malessere e a rivolgersi a qualche medico compiacente, che gli prescrive un farmaco letale che gli addormenta l’anima, o a bersi qualche spritz di troppo, o qualche birra di troppo, che poi hanno lo stesso effetto del prozac o di merde simili. Oppure sono messi talmente male, che nemmeno se ne rendono conto di avere il cuore chiuso e addormentato; alcuni nemmeno ci vanno a bersi uno spritz, o dal medico e si lasciano morire prima in un tipo di solitudine che ha tutto fuorché la capacità di guarire. E questo non è giudizio, badate bene; sono mere considerazioni, per capire, per leggere quello che ci sta succedendo come specie in declino.
Questo per dire che non è la solitudine, non sono i boschi, non è il prozac, o il tanax o la birra, il vino e gli spritz che possono fare la differenza; quello che fa la differenza siamo noi e quello che decidiamo di portarci dentro e di agire di volta in volta nelle nostre vite, a prescindere dove ce le portiamo. Sì, perché si tratta di una scelta ed è una scelta solo nostra. La responsabilità di cosa vogliamo essere e di cosa vogliamo vivere, non è data dall’ambiente che ci limita, o ci soffoca, o ci fa violenza. Nessuno ci obbliga a fare niente. La responsabilità rimane in ultima analisi sempre nostra; ad un certo punto occorre avere il coraggio di ammetterlo.
Il vecchio pastore mi disse che la grappa è come la solitudine e dipende da chi la beve farne un uso piacevole o devastante; a noi la scelta. Ed è così in tutte le cose, sempre. E se capiamo questo la smettiamo di dare la colpa ai governi, ai guerrafondai, alle multinazionali del farmaco, alle religioni, ai partiti politici, al medico, al prete e al commissario di polizia. Se capiamo questo, cominciamo a prenderci in mano la vita e a viverla come andrebbe fatto: con la responsabilità della persona adulta che sa vedere il mondo con gli occhi e con la meraviglia di un bambino. E se tutti facessimo questo, non ci sarebbero guerre, non ci sarebbero violenze e non ci sarebbero brutture che ci possano soverchiare, perché il potere di decidere sarebbe solo nostro, sempre, di volta in volta.
E invece di delegare il nostro potere di scegliere come vivere le nostre esistenze, dandolo (per questioni di comodo, di mancanza di coraggio e di consolidata abitudine) nelle mani di terzi senza scrupoli, e lamentandoci in continuazione perché poi non lo usano come vorremmo, dovremmo solo smettere di bere dalla bottiglia come dei tossici, e saperci dosare il nostro bicchierino con responsabilità e parsimonia. Alla fin fine, la differenza fra il vivere liberamente e il sopravvivere, o fra il vivere con gioia e gratitudine e il subire la vita, sta tutta in una parola: responsabilità. Ci vuole coraggio? Moltissimo! Ma chi non ne ha, ha paura e la paura va a braccetto con la morte e anche qui… si può scegliere da chi farsi accompagnare.
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