Gertrude amava cucire. Era esperta. Sapeva creare abiti davvero belli, di quelli che a nessuno verrebbe in mente di disegnare e che poi, una volta indossati, piacevano a tutti. Gertrude aveva una talento. E fortunatamente aveva anche una macchina da cucire, di quelle vecchie, con il pedale e che se andavi a cercare i pezzi di ricambio, li trovavi solo ai mercatini delle pulci.
Gertrude lavorava in uno studio legale; lei era diventata avvocato, perché il nonno era avvocato e il padre era avvocato. La madre era medico, ma la famiglia della madre non faceva testo; lei era nata nella famiglia di suo padre ed era ovvio che sarebbe diventata avvocato. Gertrude non si sentiva un avvocato, ma faceva l’avvocato. Mentre suo padre e suo nonno erano avvocati e se gli si chiedeva che cos’erano, dicevano che erano avvocati. Gertrude, invece, diceva che faceva l’avvocato.
Gertrude cuciva di notte, in soffitta, come in un film di artisti bohemien, senza guadagnarci niente e di nascosto; un avvocato che perde le notti a cucire non si era mai visto e secondo suo padre, nemmeno si doveva vedere. Infatti suo padre non lo sapeva, perché se lo avesse saputo, sarebbero stati guai seri per Gertrude. Eppure Gertrude faceva degli abiti stupendi, davvero; erano qualche cosa di innovativo, ma senza scadere nell’eccessivo. L’eleganza era una sua dote innata e la sfruttava in tutto quello che faceva.
Purtroppo, una sera suo padre si alzò dal letto per uno dei suoi soliti attacchi di gastrite; il giorno dopo aveva una causa importante in tribunale e sapeva che sarebbe stata una battaglia dura. Non poteva permettersi di perdere la notte e così attraversò la grande casa e si diresse in cucina per cercare un antidoto chimico. Proprio in quel momento a Gertrude cadde il manichino sul quale stava imbastendo un bell’abito azzurro: “PONF!” Il manichino cadde sul pavimento di assi di legno e suo padre dalla cucina sentì il tonfo.
Allora lui spense la luce in cucina, prese una mazza da baseball dallo sgabuzzino e si diresse in soffitta, pensando di trovarci un ladro. Gertrude nel frattempo aveva rimesso il manichino in piedi e si era rimessa a cucire. La stoffa azzurra aveva una stampa molto bella; erano delle tigri gialle e nere che sembravano ruggire aggrappandosi alle trame del tessuto. Lei era concentrata sul lavoro e non si avvide dell’arrivo del padre.
Quando lui entrò dalla botola che dava accesso alla soffitta, rimase di stucco! Ovunque c’erano abiti appesi e stoffe sgargianti sparse in ogni angolo; poi vide sua figlia, intenta e concentrata a cucire, china sulla macchina da cucire che lei faceva funzionare veloce e sicura, come se fosse nata per fare esattamente quello e premendo con una certa allegria il pedale di ferro battuto. Il padre rimase sbigottito e si appoggiò alla mazza da baseball che adesso usava come bastone per non cadere dalla sorpresa. Si avvicinò piano, finché lei non lo vide; e allora lei sbarrò gli occhi e impallidì!
“Che cosa stai facendo Gertrude, per l’amor di Dio!” chiese lui con una voce che ad un certo punto della frase gli si era incrinata in una lieve stonatura, sintomo di tensione e forse di una imminente crisi di nervi. Lei si sentì il cuore in gola, ma poi fece un respiro lungo, prese coraggio, si alzò e disse: “Sto cucendo un vestito! Non vedi, papà?!” Questo è il mio vero lavoro. Lo faccio di notte, perché tu non mi permetteresti mai di farlo di giorno. Di giorno devo fare l’avvocato, come sai!”
Lei stessa si stupì del tono che aveva usato; era sicura, serena, tranquilla; adesso il cuore aveva smesso di batterle forte e sentiva di avere la situazione sotto controllo. Era la prima volta che si sentiva così. Quell’uomo che da sempre aveva condizionato ogni sua decisione, ogni suo pensiero, ogni sua scelta di vita, finalmente non le faceva più paura. Lui la fissava, in silenzio, senza saper dire una parola. Poi deglutì e disse urlando:” Devi essere impazzita! Ma lo sai che domani abbiamo una causa importante e che dobbiamo essere riposati e lucidi!? Smettila di giocare e vai a dormire, per Dio!”
Usava sempre quell’espressione quando voleva imporsi. “…per Dio!” come se quello che lui diceva era indubbiamente sostenuto da una forza divina! Ma Gertrude si limitò a sorridere e disse con voce calma: “Quando avrò finito di cucire il mio vestito, andrò a dormire; non mi manca molto.” Allora lui perse il controllo; lei sapeva che sarebbe successo, perché lo conosceva bene.
Lo vide avvicinarsi con quella mazza in mano; gli occhi completamente sgranati, ma lei anticipò la sua mossa e si piegò in tempo per evitare il colpo. Lui era solito schiaffeggiare chiunque non gli obbedisse; schiaffeggiava sua madre, schiaffeggiava suo fratello ed aveva schiaffeggiato lei fin da quando era piccola. Tutti lo temevano anche per questo. Era la prassi. Ed adesso aveva una mazza da baseball in mano ed era fuori controllo.
Ma questa volta sarebbe stato diverso; Gertrude evitò di farsi colpire, muovendosi veloce e scartò di lato. Poi gli prese il polso con la mano e lo strinse. Lui non se lo aspettava e la fissava con gli occhi sbarrati, colmi di stupore e di rabbia. Nessuno lo aveva mai affrontato in quel modo! Nessuno!
Ma era invecchiato in tutti quegli anni, molto; e non era per niente in forma. Si era appesantito ed era diventato lento e fragile. Mentre lei era cresciuta, molto. Ed era forte; faceva sport a livello agonistico ed era fisicamente decisamente più forte di lui, adesso.
Gertrude aveva aspettato per anni quel momento. Gli strinse il polso fino a farlo gemere, poi gli piegò il braccio come aveva imparato a fare nei corsi di autodifesa. Lui si piegò di lato e poi in due e in avanti; la mazza da baseball gli cadde a terra e con una smorfia di dolore e di stupore sulla faccia gonfia ed arrossata, si rese conto di non essere in grado di reagire. Lei gli teneva il braccio dietro la schiena e stringeva più del necessario. Provò un immenso senso di rivalsa e di piacere vedendolo piegato in quel modo e poi gli disse:
“Adesso te ne vai e mi lasci finire!” Quando sarà il momento me ne andrò a dormire; quando lo decido io. Mi hai sentito bene?” Lui non disse niente, ma annuì con la testa. Lei strinse più forte e allora lui disse: “Sì, sì, lasciami andare!” Lei lo lasciò andare, dandogli una lieve spinta per allontanarlo da lei. Lui barcollò e si sostenne al manichino, girandosi per guardarla. Lei raccolse la mazza da baseball e lo guardò, seria.
A lui sembrò di vedere un’estranea; quella non era sua figlia. Non la conosceva. Gli sembrò una sconosciuta, una che non aveva niente a che fare con la sua famiglia, con lui. Gli sembrò addirittura che avesse un’altra faccia, una colore dei capelli diverso. Lei gli fece cenno di andare, alzando il mento e indicandogli l’uscita con lo sguardo. Lui distolse lo sguardo e se ne andò, mentre lei sorrise e si rimise al lavoro, tranquilla, appoggiando la mazza da baseball vicino alla sua macchina da scrivere, per precauzione. Finalmente poteva cucire tranquilla.
Il giorno dopo Gertrude non si presentò in tribunale; era andata in una via del centro, dove si trovavano le maggiori case di moda e aveva con se un grosso album con tutte le foto delle sue creazioni. In pochi mesi una grande e importante casa di moda la fece diventare una delle sue stiliste di punta e lei, a trentadue anni, cominciò a vivere la sua vita. E questa, si sappia, potrebbe anche essere una storia vera.
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